Nel mio delirio a volte mi sembra di vederLo ed è così un po' dappertutto,facesse molto caldo penserei ad allucinazioni,ad un amico anni fa avevano messo delle "pastiglie" nella coca-cola in discoteca e lui tornando a casa vedeva i rinoceronti in autostrada.Magari qualcuno mi ha fatto uno scherzetto simile,ma nella prima melodia,le immagini del video sono "fuorvianti" non ci vedetela dolcezza e l'universalità dello sguardo di Gesù ? Io me l'immagino poco prima di iniziare i suoi tre anni pubblici,in riva ad un lago,magari con sua madre Maria,al tramonto ,dopo il lavoro seduto sulla riva a contemplare la bellezza della creazione e chissà come Maria guardava Lui...
Eccedo,sarà la pesantezza del periodo,ma senza voler essere blasfemo ne irriverente,se nell'orto degli ulivi avesse avuto una chitarra elettrica,non nel momento più drammatico ma prima,appena arrivato,quando la preghiera era ancora per così dire "leggera", non avrebbe forse suonato così ?
Il Cielo mi perdonerà se ho sbandato troppo,spero almeno abbiate apprezzato della buona musica....
lunedì 30 aprile 2012
mercoledì 25 aprile 2012
Medjugorje,messaggio del 25/04/2012
Cari figli! Anche oggi vi invito alla preghiera e ad aprire il vostro cuore verso Dio, figlioli, come un fiore verso il calore del sole. Io sono con voi e intercedo per tutti voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
martedì 24 aprile 2012
A Medjugorje col Gius...
Fuori giri ,ma sempre confermato
Questa volta non è andata come pensavo e come speravo,il clima non era dei migliori ma erano e sono altre le nuvole che attenuano i raggi del sole,ma nemmeno queste sono una valida obiezione anzi.
Troppo criptico eh? Riprendiamo nessuna "emozione" durante il mio ultimo soggiorno a Medjugorje,niente effetti speciali,nemmeno l'ombra ,ma nemmeno li ho mai cercati né li cerco,niente testimonianze di santi,solo attesa.
Perchè "col Giuss" ? Perchè da qualche settimana per caso o quasi, mi sono messo a rileggere gli esercizi della Fraternità di CL del 2008 ed in qualche modo hanno fatto da trait d'union,da supporto, ai giorni passati in Erzegovina.Volevo fosse un pellegrinaggio meno italiano e più croato,meno "turistico" e più quotidiano e così è stato.Boris il proprietario e amico fraterno della pensione dove abbiamo alloggiato è rientrato in Italia poco dopo il nostro arrivo ed io mi sono sentito subito orfano,i giorni partivano in salita come in fondo avevo chiesto.Il "sole" di quelle giornate trascorse? Indiscutibilmente la parrocchia e detto da me è paradossale ,quindi preciso, il programma parrocchiale,rosario e Messa coi relativi riti pasquali,poi ha come sempre guidato Lei la Madonna.Volevo passare da baba (nonna) Stana a farle gli auguri ,prima di partire ,ma siamo passati davanti a casa sua quasi per caso prima del previsto e gli eventi hanno preso il loro corso. Zeljko,uno dei figli di Stana,ci ha accolti come vecchi amici,come fossimo di famiglia e lì la prima conferma: ormai siamo di casa a Medjugorje.Anche Stana ci ha accolto ,come sempre,con famigliarità ed è così bello sentirsi a casa,vedere la sua faccia,quella del gigante Ante,suo marito e di Milenko,l'altro figlio presente.I miei bimbi avrebbero voluto giocare coi figli di Zeljko come fanno ogni volta che alloggiamo lì da loro e se avremo un po' di fortuna questa estate lo potranno fare.Il sole l'ha portato anche Matej,15 anni, il fratello della ragazza adottata a distanza a Majcino Selo,che ha passato una serata con noi,lui parla poco l'italiano ma un po' in inglese ed un po' con la spontaneità dell'età ci ha resi felici di avere un amico simile,fratello maggiore per i nostri bimbi.Grazie Matej!
Il sole l'ha portato il lunedì di Pasqua il sacerdote venezuelano che ha celebrato la messa per gli italiani ,a volte si può essere orgogliosi di esserlo,che hanno gremito il piazzale dell'altare esterno.L'omelia è stata la testimonianza commossa,virilmente commossa, della sua vita .“Se dici: Fammi vedere il tuo Dio, io ti dirò: Fammi vedere l'uomo che è in te, e io ti mostrerò il mio Dio”(San TEOFILO di Antiochia, Libro ad Autolico).Grazie a quel sacerdote ho capito davvero il significato della frase di San Teofilo,la sua umanità libera è stata la strada per conoscere Dio,se l’umanità non vibra non c’è persuasività di discorso religioso che possa tenere.Non conosco il nome del sacerdote ma sarebbe valsa la pena di fare il viaggio anche solo per lui,Santo!
A giugno accompagnerò a Medjugorje alcune persone, in questi giorni dovevo anche verificare che la Pensione prenotata corrispondesse a quanto visto sul sito.E' stata l'occasione perchè ancora mi fosse accesa la luce,io cercavo di essere "professionale",volevo esserlo, ma devo essere arrivato in un momento di relax del resto gli ospiti erano partiti la sera prima e mi sono ritrovato con Pietro (l'albergatore) quasi in pigiama ma questo è irrilevante,sorrisone vero,autentico e braccio sulla spalla come mi conoscesse da sempre.Lui è un ex della Comunità Cenacolo e conoscendo Boris era già di per sè una garanzia ma è stato di più, proprio l'incontro con un Testimone,come dice il Gius,poi si certo ero lì per vedere le camere,i prezzi ma avevo già deciso,io a Medjugorje e nella vita voglio stare con gente così e voglio portare le persone da gente così,perchè Medjugorje è lì in quelle facce,in quegli occhi,in quello stupore costante per un'umanità salvata.
Grazie al don Gius non sono stato vinto dalle aspettative,né dalla fatica del deserto,come dice lui il rapporto con Dio,la fede non è un sentimento nè uno sforzo etico è un riconoscimento.Io a Medjugorje c'ero,la Madonna c'era,lo Spirito Santo soffiava insieme alla bora,come sempre con o senza bora e Gesù mi è venuto incontro,l'ho riconosciuto ne sono certo,era Boris,era Marina,era Zeljko,Matej,era il sacerdote venezuelano...
Le due grazie che il Signore dona sono:la tristezza e la stanchezza.La tristezza perché mi obbliga alla memoria e la stanchezza mi obbliga alle ragioni del perché faccio le cose.
Isuse, vidimo se!
martedì 17 aprile 2012
I miei amici "speciali"
A volte mi chiedo chi me lo fa fare,chi me l'ha fatto fare,ma dato che la risposta è evidente tiro dritto.Nella vita mi sono capitati grazie a Dio tanti amici alcuni stellari altri meno ma tutti hanno avuto la loro importanza,da qualche anno alcuni amici,volendo ma anche non volendo,"ingombranti" sono presenti nella mia vita.A volte ne sono spaventato poco o tanto che sia ma più spesso ne sono orgoglioso,spesso mi sono maestri nella fede,oggi alcuni di loro,alcune ad essere sincero, mi hanno commosso e riportato alla realtà o meglio alla loro realtà drammatica ma realmente drammatica e mi sono scoperto un'altra volta, nonostante le mie fatiche e povertà,privilegiato.A questi amici ,grandi guerrieri per il Regno dei Cieli,incatenati dal principe delle tenebre ,dedico questo canto di padre Marcelo e che il buon Dio, per intercessione della Madonna madre Sua e madre nostra, attraverso la potenza dello Spirito Santo faccia scendere su di loro e su tutti noi la sua benedizione paterna.Che san Michele Arcangelo combatta sempre al loro e al nostro fianco,la Madonna schiaccerà la testa al serpente!
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
S.Paolo
Nient'altro può esservi chiesto.
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
S.Paolo
Nient'altro può esservi chiesto.
venerdì 13 aprile 2012
Maggioranza allo sbando
Ripropongo un articolo che trovo molto interessante e che per tre quattro volte, per quieto vivere, ho provato a non pubblicare.Pochi giorni fa parlando con alcune persone appartenenti ad un movimento molto diffuso mi sono sentito dire :"La fede non ha bisogno di razionalità,la fede è fede."Certo con "maestri" come Bianchi ed altri,il priore è in ottima,si fa per dire ,compagnia,la fede diventa un un inutile perditempo emozionale,senza spessore e tenuta.
Gli intoccabili:il caso Enzo Bianchi
Guai a chi tocca Enzo Bianchi. Ci ha provato a metà marzo don Antonio Livi, il più solido filosofo metafisico che le facoltà teologiche romane e italiane abbiano conosciuto dopo padre Cornelio Fabro. Ed è stato immediatamente fulminato dalla reazione acre e scomposta non di Bianchi in prima persona, ma del direttore di “Avvenire”, il giornale cattolico che ospita tanto generosamente quanto incautamente un gran numero di scritti del fondatore e priore di Bose. Da allora, però, la polemica non si è acquietata. E prosegue in questo post con la messa a nudo dell’equivoco pensiero di Bianchi ad opera di un analista non meno competente e acuto di Livi, il professor Pietro De Marco. Ma prima di dare a lui la parola, ecco un breve riepilogo della controversia, accesa da un articolo su “La Stampa” dell’11 marzo nel quale Bianchi scioglie un peana a Hans Küng:
Hans Küng, l’occasione persa dalla chiesa
Alcuni giorni prima, domenica 4 marzo, su “Avvenire”, Bianchi aveva pubblicato un commento alle tentazioni di Gesù nel deserto:
Tentazioni. Gesù, Satana e il potere dell’orgoglio
Già in questo articolo Livi aveva ravvisato un uso inconsulto della definizione di “creatura” applicata a Gesù. Ma è dopo l’uscita dell’articolo pro Küng che il filosofo rompe gli indugi. E il 17 marzo pubblica una dura critica a Bianchi sul blog cattolico “La Bussola Quotidiana”:
Falsi profeti
In totale difesa di Bianchi entra in campo il 23 marzo il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio:
Quelle maligne deformazioni
Livi invia a Tarquinio una replica, che “Avvenire” non pubblica. Essa esce su “La Bussola” il 27 marzo:
Lettera aperta a Tarquinio
Anche Bianchi replica brevemente a Livi, che a sua volta gli risponde con una nota. Questi due testi escono su “La Bussola” il 2 aprile:
Bianchi-Livi, botta e risposta
Segue, fuori polemica ma come nuovo tassello dei suoi innumerevoli scritti, l’articolo di Bianchi uscito su “La Stampa” la domenica di Pasqua, 8 aprile:
Il giorno della vittoria dell’amore
E siamo al commento di De Marco, che ha parole severamente critiche anche per quest’ultimo articolo, oltre che per un paio di libretti, del priore di Bose. Il quale è un caso di studio non solo in sé stesso, ma per l’ampio alone di plauso che lo avvolge fuori e dentro la Chiesa, compresi i numerosi vescovi, sacerdoti, giornalisti, intellettuali che sono incantati dalla sua prosa. Una prosa che anche “Settimo Cielo” ha di recente passato al vaglio:
I silenzi del priore di Bose
* APPUNTI SUL “MAGISTERO” DEL PRIORE DI BOSE
di Pietro De Marco
1. Due cose colpiscono nella querelle sorta attorno alle critiche mosse da Antonio Livi a Enzo Bianchi, occasionate da un articolo di Bianchi, su “La Stampa” dell’11 marzo, sulla nuova edizione di “Essere cristiani” di Hans Küng. La prima è la difficoltà di Enzo Bianchi a valutare autocriticamente la portata dei suoi interventi, sia che cadano su un terreno ricettivo (dove attecchiscono senza che lui per primo ne possa controllare i frutti) sia che arrivino a menti e ad ambienti critici nei suoi confronti, ove vengono di regola, ma legittimamente, valutati con allarme se non con ostilità. Su questo punto tornerò. La seconda è la preziosa occasione di riflessione e mediazione che “Avvenire” poteva mettere a frutto, ma ha mancato. Marco Tarquinio, il direttore del quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha perso (e in modo irragionato e scomposto: da vecchio collaboratore del giornale me ne dolgo) l’opportunità di offrire finalmente uno spazio al severo, duro, dibattito che percorre la Chiesa cattolica da alcuni anni su questioni della massima importanza: in primo luogo la quotidiana diluizione della “fides quae” (cioé dei contenuti della dottrina della fede) che avviene per molte vie e, non secondariamente, attraverso la manipolazione militante o abitudinaria del Vaticano II. L’”Avvenire” di Tarquinio preferisce invece incrementare nei cattolici italiani una koinè magmatica di “sociale” e “spirituale”, senza domandarsi se il bagno nell’emozionale attivistico e nei fasti dell’ecclesialese che – con eccezioni – vi dominano, non si accodi alla perdita di rigore dell’intelletto cattolico di questi anni, e non stenda una patina opaca anche sulla forza e determinatezza dell’insegnamento papale. Può darsi che la valutazione che Livi ha dato della “predicazione” di Bianchi (in effetti inarrestabile, assillante, per cento canali) abbia ecceduto in durezza. Livi recentemente ha pubblicato un importante volume sulla teologia come scienza della fede (contro le derive di quella “filosofia religiosa” venduta per teologia che infesta le facoltà cattoliche e molta produzione teologica), libro di cui “Avvenire” non ha finora parlato e che le librerie cattoliche si guardano bene dal mettere in evidenza. Da un’intelligenza esercitata al rigore come quella di Livi non sorprende che sia arrivata una reazione dura, nell’attimo in cui il fenomeno deprecato gli è sembrato superare ogni soglia di tollerabilità. Questo traboccare, lo sappiamo, può essere provocato anche solo da una goccia. Anch’io avevo messo da parte l’articolo di Bianchi su Küng: un episodio, non così minore, di mancanza di responsabilità non solo nei confronti dei tanti che bevono le sue parole ma della sua stessa intelligenza. Chiedo: si può scrivere di Hans Küng su un giornale (che prevede una quota di lettori occasionali e non sistematici di ciò che si scrive) senza prendere esplicitamente da lui le distanze, e non tanto per opportunità ma per l’obiettiva pericolosità di un autore che ha prodotto danni enormi alla Chiesa? Non è legittimare, anzi incentivare presso il lettore (magari un “sincero cercatore di Dio”) la lettura di qualsiasi altra cosa di Küng, dai pamphlet più insidiosi e in odore di eresia alle piatte eppure maliziose compilazioni storico-religiose, dalle costanti e insolenti aggressioni a Roma ai velleitari progetti di “etica mondiale”? Non prevale in Bianchi, in questi casi, una presunzione di “magistero” divenuta talmente automatica da mettere, come Livi ha denunciato, sullo stesso piano Küng e Roma, giocando cioè a una sorta di superiore terzietà? Una goccia, magari, nel mare degli interventi del priore di Bose, eppure un brutto sintomo. 2. A suo tempo avevo lasciate “pro bono pacis” nel mio cassetto delle annotazioni sulle pagine iniziali de “La differenza cristiana”, un lettissimo volumetto di Bianchi pubblicato da Einaudi nel 2006. Ora è forse il momento di usarle. Nessun processo all’autore; ma una conferma di quell’enunciare incoerente o equivoco che, a più modesti livelli, sta corrompendo il laicato colto e settori del clero delle generazioni di mezzo, anzitutto. Si possono sottolineare già le coordinate offerte dall’indice del libro: 1. “Una laicità del rispetto”, ove si indulge in formule problematiche come “laicità, una garanzia per la religione”, o “chi minaccia il cristianesimo” fino a “l’etica, un dono dell’esperienza”; poi: 2. “La differenza cristiana” in cui, dopo aver ricordato che “la fede non si impone”, si insiste sul dato che “i cristiani non sono perseguitati” e si proclama: “Siate profeti, ma non entrate in politica”; per finire con: 3. “Dialogare e accogliere l’altro”, ove colpisce la formula “un solo Dio, molti modi per dirlo” e altre del tipo “sei diverso da me, quindi ti accetto”. Verrebbe da dire sorridendo che siamo nel cuore del cattolicesimo politicamente corretto. Ma non è più l’ora di sottovalutare il peso di alcune di queste formule che, per usare un’immagine, non stanno a galla ma trascinano sul fondo coloro che vi si aggrappano. Sottolineo subito la piega anti-apologetica di Bianchi. La tensione e l’assuefazione anti-apologetica non vanno considerate una virtù. Come è enorme la ricchezza che l’apologetica ha donato alla Chiesa (dai primi Padri ad Agostino, nei secoli, fino agli intelletti che guidarono le grandi conversioni nella cultura europea tra Otto e Novecento), così il suo mancato esercizio ha snervato, reso incolto e intimistico l’intelletto cristiano comune. Per Bianchi invece, nella da lui temutissima sfida laici-cattolici, la Chiesa rischierebbe di sentirsi “costretta ad esprimersi” (!) in modo apologetico, e con ciò a non essere più capace di sostenere in termini di pacifico confronto la sua collocazione nella “compagnia degli uomini” (pp. 3-4). Naturalmente, per Bianchi, molto della conflittualità è da imputare alla Chiesa, a un suo “presenzialismo” che privilegia “tematiche e linguaggi di scontro”, una opzione – si suggerisce – gratuita e irresponsabile. Proseguendo su questa strada “ne patirebbe la stessa evangelizzazione” (p. 4). Da ciò il lettore ricava che il parlare a voce alta dei due recenti pontificati e di alcune conferenze episcopali non ha ragion d’essere nel merito ed è contrario all’autentica pastorale. Sintomatico esordio per tutto il volumetto: assenza di diagnosi dell’attualità storica – che la Chiesa dovrebbe leggere meramente come un’astorica “compagnia” – e una concezione della differenza cristiana esonerata, forse perché immunizzata, dalla dimensione critica, se non quella indotta dall’intelligencija e molto praticata da Bianchi: libertà civili, democrazia, pacifismo, declamazione giustizialista, pauperista e simili. Certo, Bianchi condanna l’eccesso libertario (”reificazione della libertà”), poichè i cristiani credono che in ogni essere umano vi sia una legge, un ethos non rivelato, non scritto, non codificato, eppure “presente ed eloquente”. In questo consisterebbe l’universalità stessa dell’umano. La Chiesa è di conseguenza “presidio di autentico umanesimo”. Ma come? Egli dice: come spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali. In Bianchi, la concessione alla Chiesa d’essere presidio di umanesimo e l’accettazione di una sua funzione pubblica (“patrimonio di sapienza non destinato a restare negli spazi del culto privato”) prendono subito la strada vetero-habermasiana dell’agire comunicativo. Non si capisce come possa un “presidio” coincidere a priori con un’arena o una funzione di confronto di etiche e atteggiamenti individuali: arena ove la materia da presidiare non può che essere questa stessa funzione dialogica, in sé protettiva di qualsiasi contenuto e atteggiamento messo correttamente in campo. Neppure Habermas è più convinto che la Verità sia mero “Diskurs”. D’altronde un “presidio”, se il termine non è solo retorico, suppone un pericolo e un’azione di prevenzione e difesa; che è altro dall’apertura di spazi dialogici fini a se stessi. Sfugge a Bianchi che solo l’agire recente, anche conflittuale, della Chiesa è la negazione di quel confinamento al culto privato che egli teme, e che la dimensione di “setta per quanto influente” è proprio ciò che la recente politicità della Chiesa cattolica nega. Ma chi legga attentamente Bianchi sa di non potersi attendere molta consequenzialità argomentativa in un quadro ideologico pur coerente. Per Bianchi, naturalmente, non v’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. Il priore critica la laicità alla francese, ma la “giusta laicità” sarebbe di “grande giovamento alla Chiesa”. I cristiani vi troverebbero protezione contro l’utilizzo della fede come “religione civile”, termine con cui egli designa del tutto erroneamente l’uso strumentale della religione da parte di quanti “misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare”. Sullo sfondo del conflitto attuale egli evoca ancora gli eccessi del cesaropapismo e della teocrazia latina medievale. Vi sarebbero, secondo Bianchi, forze che vogliono un ruolo dominante della Chiesa, cioè che non vogliono che la Chiesa mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del Vangelo. Le istituzioni religiose verrebbero piegate alla “mediazione”, con una vicendevole “strumentalizzazione” di poteri religiosi, politici e sociali (pp. 14-15). Tutto ciò sarebbe contrario alla parola, profezia liberante, che chiede la rinuncia agli idoli societari. Questi luoghi comuni non rappresentano solo una confusione estrema – come qualsiasi studioso coglie – tra teocratismo, disciplinamento religioso della società, religione civile, come tra mediazione politica e “strumentalizzazione” delle parti. In tutto il corso del libretto si invocano, come formule di rito, dialogo, ethos e spazio sociale condiviso; e naturalmente “integrazione”, nelle scontatissime pagine sui rapporti interetnici. Paradossalmente, questo corpo retorico che si sviluppa attorno all’espressione “presidio” è affine, senza che Bianchi lo sospetti, al vero quadro ideologico della moderna religione civile: “religione” subordinata alla “volonté générale” di una comunità roussoviana senza conflitto. Dunque la Chiesa sarebbe “presidio di autentico umanesimo” da esercitare nello spazio pubblico; ma presidio vacuo, poiché ogni sua azione autorevole, se in contrasto con la “volonté générale”, sarebbe in sé, per Bianchi, “spegnimento di profezia” e “sacrificio agli idoli societari”. Nell’idea che “la profezia della Chiesa” si dia nella conformità alla “volonté générale” hanno creduto, a lungo, tutte le subculture cristiane subalterne dell’intelligencija rivoluzionaria. Oggi è tutto dimenticato, ma la religione civile che pretende il dominio è sempre quella dell’intelligencija (dei diritti emancipatori, oggi), mentre è difficile per la Chiesa esercitare il proprio “presidio” pubblico. Né sarà possibile che lo eserciti mai se seguirà il canone di Bianchi: “I pastori chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia ma non pretendono che la legge evangelica [ma non era il diritto naturale, "ethos non rivelato, non scritto, eppure eloquente" universalmente? - p.d.m.] sia tradotta in legge vincolante per tutti”. “Evangelizzazione e dialogo, dunque!”. Ma come e su che cosa, se la preoccupazione maggiore è che “la definizione della verità [per Bianchi “prodotta e definita dalla Chiesa stessa” (p. 92)] rischia di sostituirsi alla Verità vivente, Gesù Cristo risorto”? La sudditanza ai “valori” dell’azione politica dell’intelligencija unita alla de-dogmatizzazione sono una pericolosa miscela, che non sarà Bose a trattenere sull’orlo del precipizio fideistico. Nel suo più recente libro “Per un’etica condivisa”, pubblicato nel 2009, il priore di Bose mostra, infatti, che anche in lui la scivolata prosegue. A p. 46 generosamente sostiene che è ancora possibile “raggiungere al cuore del loro vissuto ordinario” gli uomini di oggi: “È ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio. Certo, per fare questo appare oramai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via dell’esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi”. Ovviamente la strada è, invece, quella del restare “attaccati” a “un Dio soprattutto raccontato, spiegato da Gesù Cristo”. Che poi il Dio “raccontato, spiegato” da Gesù sia, anche nelle omelie dei parroci poco provveduti, il Dio del “forse Gesù non ha detto questo”, del “probabilmente non è avvenuto quello che l’evangelista racconta”, cioè della critica biblica orecchiata, diffusamente maneggiata senza criteri ermeneutici e senza teologia, insomma il Dio di un Gesù ricostruito arbitrariamente, a Bianchi non interessa. Né gli interessa, sul terreno dei fondamentali, che il Concilio Vaticano II non abbia annullato il rapporto necessario tra Scrittura e Tradizione, che solo può garantire la vera “doxa” sul “Dio spiegato da Gesù Cristo”. Purtroppo, su questo terreno, l’impietosa lettura di Livi tocca difetti e pericoli reali. 3. Sarebbe stato meglio per Bianchi non arroccarsi nel: “Io? quando mai?”. I “maestri” devono adattarsi, ormai, a un altro regime comunicativo e a maggiore autocontrollo; meglio se anche a una maggiore riflessione. Egualmente chi li pubblica. Scrivo questo con dinanzi agli occhi anche l’ultima sortita pubblica di Bianchi, su “La Stampa” della domenica di Pasqua. L’articolo-omelia è per gran parte opinabile nei limiti della legittima diversità tra tutti noi. Personalmente, né da un giornale né da un pulpito vorrei sentirmi dire che nella Pasqua i cristiani “innanzitutto leggono una storia di passione e di morte”. Ritengo evidente che nella Pasqua i cristiani anzitutto rivivono la resurrezione e “leggono” ciò che in apertura della veglia pasquale recita l’Exultet, quando invoca uno squillante, regale annuncio “pro tanti Regis victoria”. Sarà la diversità delle nostre sensibilità comunicative, o qualcos’altro, che il finale dell’articolo di Bianchi rivela? In effetti il priore di Bose poteva arrestarsi sulla battuta “politica” contro il Crocifisso come “simbolo culturale”, un tema complicato del genere “religione civile”, per affrontare il quale si richiederebbero categorie giuste. Pazienza. Ma egli si avventa sul terreno della testimonianza cristiana del Risorto: i cristiani ricordano e si dicono – scrive – “semplicemente questo: l’amore vissuto da Gesù ha vinto la morte… Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso [che significa? è un escamotage per evitare di dire che non era di ordine soprannaturale? - p.d.m.] ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio”. Per un cristiano augurare la buona Pasqua sarebbe, quindi, affermare: “Vorrei dirti che l’amore vince la morte”. La protezione che l’inciso “il Figlio di Dio e la Parola ecc.” esercita sulle 14 righe finali dell’articolo è minima. Restano la romanticheria dell’enunciato: “l’amore vince la morte”, tutto minuscolo, pura enfasi adatta a tutti gli approdi, aperta a tutte le concezioni, da quella delle lettere giovannee al clima del romanzo rosa e della canzonetta. Quale “amore”? E quale “morte”? Abbiamo riflettuto e battagliato su morte e antropologia cristiana per anni, perche i “maestri” arrivino a dirci queste miserie? Qui non c’è neppure il buon senso (o il coraggio, su un quotidiano laico) di introdurre le maiuscole come a suggerire che, comunque, si intendono la vetta incarnata dell’Agape e la visione della Morte propria, poniamo, della teologia paolina della redenzione: “Ubi est mors aculeus tuus, ubi est mors victoria tua?”. L’affermazione, poi, che “ciò che Gesù ebbe di eccezionale fu di ordine umano” è follemente equivoca. È la ripetizione di un topos del protestantesimo liberale. È per questo che Bianchi non dice che Gesù ha vinto la morte, ma che “l’amore vissuto da Gesù” lo ha fatto, cioè che a salvarci è stata semplicemente l’esperienza amorevole dell’umanissimo Gesù. Davvero i “teologi” del Gesù solo amore – questi neopietisti postmoderni – pensano che per vincere la Morte non sia stato necessario il Signore della Storia? Il tutto è irresponsabilmente ai margini, se non fuori, della cristologia dei grandi Concili, di quei fondamenti trinitari e cristologici irrinunciabili la cui alterazione, frequente, conduce sempre a una predicazione dimezzata e infantile, a un cristianesimo informe, alla corruttela “teologica” dei best seller di un Vito Mancuso. Così, a cascata. Solo l’intervento di Pietro, temo, solo il “confirma fratres tuos” potrà fermare questa incosciente, gaia e stolida, caduta collettiva. Firenze, 9 aprile 2012 * L’ultimo libro di Livi, citato da De Marco: A. Livi, “Vera e falsa teologia”, Leonardo da Vinci, Roma, 2012, pp. 320, euro 25,00.
Il sottotitolo ne riassume così il contenuto: “Come distinguere l’autentica ’scienza della fede’ da un’equivoca ‘filosofia religiosa’”.
Don Antonio Livi, 74 anni, è professore emerito di filosofia alla Pontificia Università Lateranense e autore di numerosi saggi.
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/04/09/gli-intoccabili-il-caso-enzo-bianchi/
Gli intoccabili:il caso Enzo Bianchi
Guai a chi tocca Enzo Bianchi. Ci ha provato a metà marzo don Antonio Livi, il più solido filosofo metafisico che le facoltà teologiche romane e italiane abbiano conosciuto dopo padre Cornelio Fabro. Ed è stato immediatamente fulminato dalla reazione acre e scomposta non di Bianchi in prima persona, ma del direttore di “Avvenire”, il giornale cattolico che ospita tanto generosamente quanto incautamente un gran numero di scritti del fondatore e priore di Bose. Da allora, però, la polemica non si è acquietata. E prosegue in questo post con la messa a nudo dell’equivoco pensiero di Bianchi ad opera di un analista non meno competente e acuto di Livi, il professor Pietro De Marco. Ma prima di dare a lui la parola, ecco un breve riepilogo della controversia, accesa da un articolo su “La Stampa” dell’11 marzo nel quale Bianchi scioglie un peana a Hans Küng:
Hans Küng, l’occasione persa dalla chiesa
Alcuni giorni prima, domenica 4 marzo, su “Avvenire”, Bianchi aveva pubblicato un commento alle tentazioni di Gesù nel deserto:
Tentazioni. Gesù, Satana e il potere dell’orgoglio
Già in questo articolo Livi aveva ravvisato un uso inconsulto della definizione di “creatura” applicata a Gesù. Ma è dopo l’uscita dell’articolo pro Küng che il filosofo rompe gli indugi. E il 17 marzo pubblica una dura critica a Bianchi sul blog cattolico “La Bussola Quotidiana”:
Falsi profeti
In totale difesa di Bianchi entra in campo il 23 marzo il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio:
Quelle maligne deformazioni
Livi invia a Tarquinio una replica, che “Avvenire” non pubblica. Essa esce su “La Bussola” il 27 marzo:
Lettera aperta a Tarquinio
Anche Bianchi replica brevemente a Livi, che a sua volta gli risponde con una nota. Questi due testi escono su “La Bussola” il 2 aprile:
Bianchi-Livi, botta e risposta
Segue, fuori polemica ma come nuovo tassello dei suoi innumerevoli scritti, l’articolo di Bianchi uscito su “La Stampa” la domenica di Pasqua, 8 aprile:
Il giorno della vittoria dell’amore
E siamo al commento di De Marco, che ha parole severamente critiche anche per quest’ultimo articolo, oltre che per un paio di libretti, del priore di Bose. Il quale è un caso di studio non solo in sé stesso, ma per l’ampio alone di plauso che lo avvolge fuori e dentro la Chiesa, compresi i numerosi vescovi, sacerdoti, giornalisti, intellettuali che sono incantati dalla sua prosa. Una prosa che anche “Settimo Cielo” ha di recente passato al vaglio:
I silenzi del priore di Bose
* APPUNTI SUL “MAGISTERO” DEL PRIORE DI BOSE
di Pietro De Marco
1. Due cose colpiscono nella querelle sorta attorno alle critiche mosse da Antonio Livi a Enzo Bianchi, occasionate da un articolo di Bianchi, su “La Stampa” dell’11 marzo, sulla nuova edizione di “Essere cristiani” di Hans Küng. La prima è la difficoltà di Enzo Bianchi a valutare autocriticamente la portata dei suoi interventi, sia che cadano su un terreno ricettivo (dove attecchiscono senza che lui per primo ne possa controllare i frutti) sia che arrivino a menti e ad ambienti critici nei suoi confronti, ove vengono di regola, ma legittimamente, valutati con allarme se non con ostilità. Su questo punto tornerò. La seconda è la preziosa occasione di riflessione e mediazione che “Avvenire” poteva mettere a frutto, ma ha mancato. Marco Tarquinio, il direttore del quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha perso (e in modo irragionato e scomposto: da vecchio collaboratore del giornale me ne dolgo) l’opportunità di offrire finalmente uno spazio al severo, duro, dibattito che percorre la Chiesa cattolica da alcuni anni su questioni della massima importanza: in primo luogo la quotidiana diluizione della “fides quae” (cioé dei contenuti della dottrina della fede) che avviene per molte vie e, non secondariamente, attraverso la manipolazione militante o abitudinaria del Vaticano II. L’”Avvenire” di Tarquinio preferisce invece incrementare nei cattolici italiani una koinè magmatica di “sociale” e “spirituale”, senza domandarsi se il bagno nell’emozionale attivistico e nei fasti dell’ecclesialese che – con eccezioni – vi dominano, non si accodi alla perdita di rigore dell’intelletto cattolico di questi anni, e non stenda una patina opaca anche sulla forza e determinatezza dell’insegnamento papale. Può darsi che la valutazione che Livi ha dato della “predicazione” di Bianchi (in effetti inarrestabile, assillante, per cento canali) abbia ecceduto in durezza. Livi recentemente ha pubblicato un importante volume sulla teologia come scienza della fede (contro le derive di quella “filosofia religiosa” venduta per teologia che infesta le facoltà cattoliche e molta produzione teologica), libro di cui “Avvenire” non ha finora parlato e che le librerie cattoliche si guardano bene dal mettere in evidenza. Da un’intelligenza esercitata al rigore come quella di Livi non sorprende che sia arrivata una reazione dura, nell’attimo in cui il fenomeno deprecato gli è sembrato superare ogni soglia di tollerabilità. Questo traboccare, lo sappiamo, può essere provocato anche solo da una goccia. Anch’io avevo messo da parte l’articolo di Bianchi su Küng: un episodio, non così minore, di mancanza di responsabilità non solo nei confronti dei tanti che bevono le sue parole ma della sua stessa intelligenza. Chiedo: si può scrivere di Hans Küng su un giornale (che prevede una quota di lettori occasionali e non sistematici di ciò che si scrive) senza prendere esplicitamente da lui le distanze, e non tanto per opportunità ma per l’obiettiva pericolosità di un autore che ha prodotto danni enormi alla Chiesa? Non è legittimare, anzi incentivare presso il lettore (magari un “sincero cercatore di Dio”) la lettura di qualsiasi altra cosa di Küng, dai pamphlet più insidiosi e in odore di eresia alle piatte eppure maliziose compilazioni storico-religiose, dalle costanti e insolenti aggressioni a Roma ai velleitari progetti di “etica mondiale”? Non prevale in Bianchi, in questi casi, una presunzione di “magistero” divenuta talmente automatica da mettere, come Livi ha denunciato, sullo stesso piano Küng e Roma, giocando cioè a una sorta di superiore terzietà? Una goccia, magari, nel mare degli interventi del priore di Bose, eppure un brutto sintomo. 2. A suo tempo avevo lasciate “pro bono pacis” nel mio cassetto delle annotazioni sulle pagine iniziali de “La differenza cristiana”, un lettissimo volumetto di Bianchi pubblicato da Einaudi nel 2006. Ora è forse il momento di usarle. Nessun processo all’autore; ma una conferma di quell’enunciare incoerente o equivoco che, a più modesti livelli, sta corrompendo il laicato colto e settori del clero delle generazioni di mezzo, anzitutto. Si possono sottolineare già le coordinate offerte dall’indice del libro: 1. “Una laicità del rispetto”, ove si indulge in formule problematiche come “laicità, una garanzia per la religione”, o “chi minaccia il cristianesimo” fino a “l’etica, un dono dell’esperienza”; poi: 2. “La differenza cristiana” in cui, dopo aver ricordato che “la fede non si impone”, si insiste sul dato che “i cristiani non sono perseguitati” e si proclama: “Siate profeti, ma non entrate in politica”; per finire con: 3. “Dialogare e accogliere l’altro”, ove colpisce la formula “un solo Dio, molti modi per dirlo” e altre del tipo “sei diverso da me, quindi ti accetto”. Verrebbe da dire sorridendo che siamo nel cuore del cattolicesimo politicamente corretto. Ma non è più l’ora di sottovalutare il peso di alcune di queste formule che, per usare un’immagine, non stanno a galla ma trascinano sul fondo coloro che vi si aggrappano. Sottolineo subito la piega anti-apologetica di Bianchi. La tensione e l’assuefazione anti-apologetica non vanno considerate una virtù. Come è enorme la ricchezza che l’apologetica ha donato alla Chiesa (dai primi Padri ad Agostino, nei secoli, fino agli intelletti che guidarono le grandi conversioni nella cultura europea tra Otto e Novecento), così il suo mancato esercizio ha snervato, reso incolto e intimistico l’intelletto cristiano comune. Per Bianchi invece, nella da lui temutissima sfida laici-cattolici, la Chiesa rischierebbe di sentirsi “costretta ad esprimersi” (!) in modo apologetico, e con ciò a non essere più capace di sostenere in termini di pacifico confronto la sua collocazione nella “compagnia degli uomini” (pp. 3-4). Naturalmente, per Bianchi, molto della conflittualità è da imputare alla Chiesa, a un suo “presenzialismo” che privilegia “tematiche e linguaggi di scontro”, una opzione – si suggerisce – gratuita e irresponsabile. Proseguendo su questa strada “ne patirebbe la stessa evangelizzazione” (p. 4). Da ciò il lettore ricava che il parlare a voce alta dei due recenti pontificati e di alcune conferenze episcopali non ha ragion d’essere nel merito ed è contrario all’autentica pastorale. Sintomatico esordio per tutto il volumetto: assenza di diagnosi dell’attualità storica – che la Chiesa dovrebbe leggere meramente come un’astorica “compagnia” – e una concezione della differenza cristiana esonerata, forse perché immunizzata, dalla dimensione critica, se non quella indotta dall’intelligencija e molto praticata da Bianchi: libertà civili, democrazia, pacifismo, declamazione giustizialista, pauperista e simili. Certo, Bianchi condanna l’eccesso libertario (”reificazione della libertà”), poichè i cristiani credono che in ogni essere umano vi sia una legge, un ethos non rivelato, non scritto, non codificato, eppure “presente ed eloquente”. In questo consisterebbe l’universalità stessa dell’umano. La Chiesa è di conseguenza “presidio di autentico umanesimo”. Ma come? Egli dice: come spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali. In Bianchi, la concessione alla Chiesa d’essere presidio di umanesimo e l’accettazione di una sua funzione pubblica (“patrimonio di sapienza non destinato a restare negli spazi del culto privato”) prendono subito la strada vetero-habermasiana dell’agire comunicativo. Non si capisce come possa un “presidio” coincidere a priori con un’arena o una funzione di confronto di etiche e atteggiamenti individuali: arena ove la materia da presidiare non può che essere questa stessa funzione dialogica, in sé protettiva di qualsiasi contenuto e atteggiamento messo correttamente in campo. Neppure Habermas è più convinto che la Verità sia mero “Diskurs”. D’altronde un “presidio”, se il termine non è solo retorico, suppone un pericolo e un’azione di prevenzione e difesa; che è altro dall’apertura di spazi dialogici fini a se stessi. Sfugge a Bianchi che solo l’agire recente, anche conflittuale, della Chiesa è la negazione di quel confinamento al culto privato che egli teme, e che la dimensione di “setta per quanto influente” è proprio ciò che la recente politicità della Chiesa cattolica nega. Ma chi legga attentamente Bianchi sa di non potersi attendere molta consequenzialità argomentativa in un quadro ideologico pur coerente. Per Bianchi, naturalmente, non v’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. Il priore critica la laicità alla francese, ma la “giusta laicità” sarebbe di “grande giovamento alla Chiesa”. I cristiani vi troverebbero protezione contro l’utilizzo della fede come “religione civile”, termine con cui egli designa del tutto erroneamente l’uso strumentale della religione da parte di quanti “misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare”. Sullo sfondo del conflitto attuale egli evoca ancora gli eccessi del cesaropapismo e della teocrazia latina medievale. Vi sarebbero, secondo Bianchi, forze che vogliono un ruolo dominante della Chiesa, cioè che non vogliono che la Chiesa mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del Vangelo. Le istituzioni religiose verrebbero piegate alla “mediazione”, con una vicendevole “strumentalizzazione” di poteri religiosi, politici e sociali (pp. 14-15). Tutto ciò sarebbe contrario alla parola, profezia liberante, che chiede la rinuncia agli idoli societari. Questi luoghi comuni non rappresentano solo una confusione estrema – come qualsiasi studioso coglie – tra teocratismo, disciplinamento religioso della società, religione civile, come tra mediazione politica e “strumentalizzazione” delle parti. In tutto il corso del libretto si invocano, come formule di rito, dialogo, ethos e spazio sociale condiviso; e naturalmente “integrazione”, nelle scontatissime pagine sui rapporti interetnici. Paradossalmente, questo corpo retorico che si sviluppa attorno all’espressione “presidio” è affine, senza che Bianchi lo sospetti, al vero quadro ideologico della moderna religione civile: “religione” subordinata alla “volonté générale” di una comunità roussoviana senza conflitto. Dunque la Chiesa sarebbe “presidio di autentico umanesimo” da esercitare nello spazio pubblico; ma presidio vacuo, poiché ogni sua azione autorevole, se in contrasto con la “volonté générale”, sarebbe in sé, per Bianchi, “spegnimento di profezia” e “sacrificio agli idoli societari”. Nell’idea che “la profezia della Chiesa” si dia nella conformità alla “volonté générale” hanno creduto, a lungo, tutte le subculture cristiane subalterne dell’intelligencija rivoluzionaria. Oggi è tutto dimenticato, ma la religione civile che pretende il dominio è sempre quella dell’intelligencija (dei diritti emancipatori, oggi), mentre è difficile per la Chiesa esercitare il proprio “presidio” pubblico. Né sarà possibile che lo eserciti mai se seguirà il canone di Bianchi: “I pastori chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia ma non pretendono che la legge evangelica [ma non era il diritto naturale, "ethos non rivelato, non scritto, eppure eloquente" universalmente? - p.d.m.] sia tradotta in legge vincolante per tutti”. “Evangelizzazione e dialogo, dunque!”. Ma come e su che cosa, se la preoccupazione maggiore è che “la definizione della verità [per Bianchi “prodotta e definita dalla Chiesa stessa” (p. 92)] rischia di sostituirsi alla Verità vivente, Gesù Cristo risorto”? La sudditanza ai “valori” dell’azione politica dell’intelligencija unita alla de-dogmatizzazione sono una pericolosa miscela, che non sarà Bose a trattenere sull’orlo del precipizio fideistico. Nel suo più recente libro “Per un’etica condivisa”, pubblicato nel 2009, il priore di Bose mostra, infatti, che anche in lui la scivolata prosegue. A p. 46 generosamente sostiene che è ancora possibile “raggiungere al cuore del loro vissuto ordinario” gli uomini di oggi: “È ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio. Certo, per fare questo appare oramai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via dell’esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi”. Ovviamente la strada è, invece, quella del restare “attaccati” a “un Dio soprattutto raccontato, spiegato da Gesù Cristo”. Che poi il Dio “raccontato, spiegato” da Gesù sia, anche nelle omelie dei parroci poco provveduti, il Dio del “forse Gesù non ha detto questo”, del “probabilmente non è avvenuto quello che l’evangelista racconta”, cioè della critica biblica orecchiata, diffusamente maneggiata senza criteri ermeneutici e senza teologia, insomma il Dio di un Gesù ricostruito arbitrariamente, a Bianchi non interessa. Né gli interessa, sul terreno dei fondamentali, che il Concilio Vaticano II non abbia annullato il rapporto necessario tra Scrittura e Tradizione, che solo può garantire la vera “doxa” sul “Dio spiegato da Gesù Cristo”. Purtroppo, su questo terreno, l’impietosa lettura di Livi tocca difetti e pericoli reali. 3. Sarebbe stato meglio per Bianchi non arroccarsi nel: “Io? quando mai?”. I “maestri” devono adattarsi, ormai, a un altro regime comunicativo e a maggiore autocontrollo; meglio se anche a una maggiore riflessione. Egualmente chi li pubblica. Scrivo questo con dinanzi agli occhi anche l’ultima sortita pubblica di Bianchi, su “La Stampa” della domenica di Pasqua. L’articolo-omelia è per gran parte opinabile nei limiti della legittima diversità tra tutti noi. Personalmente, né da un giornale né da un pulpito vorrei sentirmi dire che nella Pasqua i cristiani “innanzitutto leggono una storia di passione e di morte”. Ritengo evidente che nella Pasqua i cristiani anzitutto rivivono la resurrezione e “leggono” ciò che in apertura della veglia pasquale recita l’Exultet, quando invoca uno squillante, regale annuncio “pro tanti Regis victoria”. Sarà la diversità delle nostre sensibilità comunicative, o qualcos’altro, che il finale dell’articolo di Bianchi rivela? In effetti il priore di Bose poteva arrestarsi sulla battuta “politica” contro il Crocifisso come “simbolo culturale”, un tema complicato del genere “religione civile”, per affrontare il quale si richiederebbero categorie giuste. Pazienza. Ma egli si avventa sul terreno della testimonianza cristiana del Risorto: i cristiani ricordano e si dicono – scrive – “semplicemente questo: l’amore vissuto da Gesù ha vinto la morte… Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso [che significa? è un escamotage per evitare di dire che non era di ordine soprannaturale? - p.d.m.] ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio”. Per un cristiano augurare la buona Pasqua sarebbe, quindi, affermare: “Vorrei dirti che l’amore vince la morte”. La protezione che l’inciso “il Figlio di Dio e la Parola ecc.” esercita sulle 14 righe finali dell’articolo è minima. Restano la romanticheria dell’enunciato: “l’amore vince la morte”, tutto minuscolo, pura enfasi adatta a tutti gli approdi, aperta a tutte le concezioni, da quella delle lettere giovannee al clima del romanzo rosa e della canzonetta. Quale “amore”? E quale “morte”? Abbiamo riflettuto e battagliato su morte e antropologia cristiana per anni, perche i “maestri” arrivino a dirci queste miserie? Qui non c’è neppure il buon senso (o il coraggio, su un quotidiano laico) di introdurre le maiuscole come a suggerire che, comunque, si intendono la vetta incarnata dell’Agape e la visione della Morte propria, poniamo, della teologia paolina della redenzione: “Ubi est mors aculeus tuus, ubi est mors victoria tua?”. L’affermazione, poi, che “ciò che Gesù ebbe di eccezionale fu di ordine umano” è follemente equivoca. È la ripetizione di un topos del protestantesimo liberale. È per questo che Bianchi non dice che Gesù ha vinto la morte, ma che “l’amore vissuto da Gesù” lo ha fatto, cioè che a salvarci è stata semplicemente l’esperienza amorevole dell’umanissimo Gesù. Davvero i “teologi” del Gesù solo amore – questi neopietisti postmoderni – pensano che per vincere la Morte non sia stato necessario il Signore della Storia? Il tutto è irresponsabilmente ai margini, se non fuori, della cristologia dei grandi Concili, di quei fondamenti trinitari e cristologici irrinunciabili la cui alterazione, frequente, conduce sempre a una predicazione dimezzata e infantile, a un cristianesimo informe, alla corruttela “teologica” dei best seller di un Vito Mancuso. Così, a cascata. Solo l’intervento di Pietro, temo, solo il “confirma fratres tuos” potrà fermare questa incosciente, gaia e stolida, caduta collettiva. Firenze, 9 aprile 2012 * L’ultimo libro di Livi, citato da De Marco: A. Livi, “Vera e falsa teologia”, Leonardo da Vinci, Roma, 2012, pp. 320, euro 25,00.
Il sottotitolo ne riassume così il contenuto: “Come distinguere l’autentica ’scienza della fede’ da un’equivoca ‘filosofia religiosa’”.
Don Antonio Livi, 74 anni, è professore emerito di filosofia alla Pontificia Università Lateranense e autore di numerosi saggi.
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/04/09/gli-intoccabili-il-caso-enzo-bianchi/
lunedì 2 aprile 2012
Medjugorje,messaggio del 02/04/2012
“Cari figli, come Regina della pace desidero dare a voi, miei figli, la pace, la vera pace che viene attraverso il Cuore del mio Figlio Divino. Come Madre prego che nei vostri cuori regni la sapienza, l’umiltà e la bontà, che regni la pace, che regni mio Figlio. Quando mio Figlio sarà il Sovrano nei vostri cuori, potrete aiutare gli altri a conoscerlo. Quando la pace del cielo vi conquisterà, coloro che la cercano in posti sbagliati e così danno dolore al mio Cuore materno la riconosceranno. Figli miei, grande sarà la mia gioia quando vedrò che accogliete le mie parole e che desiderate seguirmi. Non abbiate paura, non siete soli. Datemi le vostre mani ed io vi guiderò. Non dimenticate i vostri pastori. Pregate che nei pensieri siano sempre con mio Figlio, che li ha chiamati affinché lo testimonino. Vi ringrazio”.
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