20-06-2013
C’è una sensazione che avverto fortissima in questo periodo, che peraltro coincide con i miei primi cento giorni nella diocesi di Ferrara-Comacchio.
Da una parte c’è una incredibile attesa di una vera autorevolezza cristiana; attesa anche dai laici, perché non sono pochi coloro che, nello sconcerto attuale di una società evidentemente così empia, sentono il bisogno di una prossimità, il bisogno di essere accolti nelle istanze profonde della vita. E’ quella sensibilità che monsignor Giussani chiamava “il cammino al vero”, “la ricerca del volto umano”.
L’esigenza di questo cammino al vero è fortissima. E il rinnovarsi di una esigenza di verità e di bellezza, di bene e di giustizia supera quotidianamente, anche se in modo molto debole, questo grigiore del consumismo, del relativismo etico, dell’opinionalismo, di questo massmediaticamente corretto che inquina la vita della nostra società, dalle famiglie fino alle realtà sociali più impegnate o più impegnative.
C’è quindi una grande disponibilità del mondo, dell’uomo verso Cristo, verso la Chiesa.
Dall’altra parte però quello che mi colpisce dolorosamente, quasi fisicamente, è l’incapacità di essere all’altezza di questa domanda: non della Chiesa come istituzione ma della cristianità intesa come esperienza viva di Chiesa nel mondo.
Mi trovo spesso a pensare ai 37 anni contrassegnati dal grande Magistero, della grande testimonianza di Giovanni Paolo II, da questo straordinario riposizionamento della Chiesa di fronte al cuore dell’uomo, che ha riaperto il dialogo tra Cristo e il cuore dell’uomo. A questi 37 anni di un Magistero straordinario e di una capacità di dialogo con gli uomini ben prima e ben oltre visioni ideologiche e religiose; e agli anni non meno intensi e suggestivi, appassionati, di Benedetto XVI, nel suo infaticabile riproporre il cristianesimo come evento di compimento della ragione, dell’umanità; con quell’implacabile, dolcissimo insegnamento sul recupero della ragione, intesa in senso largo, compiuto, come apertura al mistero e non come affermazione delle propria capacità di organizzare scientificamente le conoscenze.
Ebbene, dopo tutto questo è come se la cristianità italiana sia quasi inebetita. Inebetita.
Così ora si profilano due sconfitte lancinanti per questa cristianità, a cui non avrei mai pensato di dover assistere, e che riempiono la mia vita di vergogna, perché è per affermare la verità della Chiesa e della sua missione contro queste tentazioni, che ho dedicato la mia vita di cristiano, di prete, adesso di vescovo, di ricercatore.
La prima sconfitta è incredibile ma si è ormai compiuta. Dopo che con Giovanni Paolo II, in perfetta linea con la tradizione magisteriale della Chiesa, si era affermata la fede come condizione di una autentica conoscenza della realtà, della storia e della società; dopo che si era compreso che la fede diventa cultura, per cui - come ha detto tantissime volte – “se la fede non diviene cultura non è stata realmente accolta, pienamente vissuta, umanamente ripensata”; dopo tutto questo sta ridiventando maggioranza quel dualismo fede e cultura per cui la cultura rappresenta una realtà autonoma dalla fede. Così che con la cultura nella migliore delle ipotesi si può accennare a qualche momento di “dialogo” o di “cortile”, espressioni che una adeguata razionalità e una adeguata consapevolezza di fede fanno fatica a definire nella loro obiettività.
Allora la fede si aggiunge alla cultura, ne rappresenta una introduzione di carattere spirituale, ne corregge o ne correggerebbe le conseguenze negative sul piano etico, aspetto questo assolutamente evidente quando si parla del rapporto fede-economia o fede-politica.
Che fine ha fatto la grande e spettacolare enciclica Caritas in Veritate, che invece affermava la pertinenza della fede nei confronti delle stesse strutture, delle stesse dinamiche economiche? Ogni tanto la si vede citare, ma giusto il titolo. Anche i cosiddetti economisti cristiani hanno ripiegato su questa posizione, sono tornati velocemente a quella eticità dell’economia, che nell’apparente semplicità dice tutto perché non dice niente. L’economista cristiano e poi il politico cristiano in questa visione dovrebbero così temperare i rigori del capitalismo selvaggio.
La fede invece forma la realtà; “la fede abilita noi credenti a interpretare, meglio di qualsiasi altro, le istanze più profonde dell’essere umano e ad indicarne con serena e tranquilla sicurezza le vie e i mezzi di un pieno appagamento”, diceva Giovanni Paolo II l’8 dicembre 1978 a docenti e studenti dell’Università Cattolica, tra cui c’ero anch’io, e lo posso dire con un orgoglio che non si è mai andato stemperando. E ho percepito la straordinaria novità di quell’incontro, troppo velocemente archiviato anche nell’ambito dell’Università Cattolica cui pure era stato riferito in maniera privilegiata e preferenziale.
Non meno penosa dell’insorgere del dualismo fede-cultura, è l’altra grande sconfitta: l’insignificanza della presenza cattolica nell’agone sociale e politico. Oggi il voto dei cattolici è assolutamente insignificante nel panorama della vita italiana, come ebbe a dire giustamente il mio amico Alfredo Mantovano in un suo lucido intervento qualche mese fa.
Chi sono i cattolici che militano nella varietà di espressioni socio-politiche che esistono? Gente che personalmente la domenica mattina andrà a messa, ci si augura; che è a posto dal punto di vista di una certa devozione alla vita morale, a meno che non si tratti di vita matrimoniale perché lì allora si aprono centinaia e centinaia di eccezioni, più o meno clamorose o più o meno nascoste ma assolutamente maggioritarie anche tra i cattolici in politica. Gente che personalmente e individualmente può avere anche una certa pratica di pietà.
Ma ciò che caratterizza l’intervento di chi appartiene alla fede, la forma dell’intervento è la Dottrina Sociale della Chiesa. E il cuore della Dottrina Sociale della Chiesa sono i princìpi non negoziabili. Questi dettano le analisi di carattere socio-politico, e questi indicano anche le linee di un’azione che almeno dal punto di vista della cultura dovrebbero avere una certa unità. Dovrebbe esserci una certa unità dei cattolici in politica che poi può preludere a differenze dettate da valutazioni particolari e speriamo non soltanto da interessi particolari.
Le ultime elezioni invece sono state la sagra dell’individualismo e dell’opinionalismo. I cattolici hanno votato per tutti e a vantaggio di tutti, senza chiedersi se questo loro voto avrebbe poi significato eleggere delle presenze che avrebbero tutelato non gli interessi della Chiesa, ma gli interessi della ragione e della fede, cioè dell’umanità.
Tutto era avviato, la Provvidenza aveva avviato tutto perché ci fosse un risorgere della presenza cristiana, come presenza di popolo, come presenza culturale, sociale, politica. Che ne è ora della grande sfida della nuova evangelizzazione che abbiamo raccolto dal primo insegnamento di Giovanni Paolo II?
Tornano i dualismi che si collegano ad alcuni nomi nefasti per la cristianità italiana, passati o presenti, che il pudore e la carità di patria mi impedisce di citare.
Forse i magisteri paralleli stanno compiendo l’ultima e non meno grave delle loro vittorie. Ma la vittoria dell’individualismo culturale e della frammentazione della presenza politica dei cattolici, senza la custodia e la promozione dei princìpi non negoziabili, non è soltanto la sconfitta dei cristiani, come diceva Marcello Pera nella prefazione al mio volumetto “Per un umanesimo del Terzo Millennio”: “Qui se si perde, si perde tutti; se si vince si vince tutti”.
Per adesso, salvo che la Provvidenza riscompigli le carte, possiamo veramente dire che stiamo perdendo tutti.
* Arcivescovo di Ferrara e Comacchio,
- A monsignor Negri il premio Cultura Cattolica.
Da una parte c’è una incredibile attesa di una vera autorevolezza cristiana; attesa anche dai laici, perché non sono pochi coloro che, nello sconcerto attuale di una società evidentemente così empia, sentono il bisogno di una prossimità, il bisogno di essere accolti nelle istanze profonde della vita. E’ quella sensibilità che monsignor Giussani chiamava “il cammino al vero”, “la ricerca del volto umano”.
L’esigenza di questo cammino al vero è fortissima. E il rinnovarsi di una esigenza di verità e di bellezza, di bene e di giustizia supera quotidianamente, anche se in modo molto debole, questo grigiore del consumismo, del relativismo etico, dell’opinionalismo, di questo massmediaticamente corretto che inquina la vita della nostra società, dalle famiglie fino alle realtà sociali più impegnate o più impegnative.
C’è quindi una grande disponibilità del mondo, dell’uomo verso Cristo, verso la Chiesa.
Dall’altra parte però quello che mi colpisce dolorosamente, quasi fisicamente, è l’incapacità di essere all’altezza di questa domanda: non della Chiesa come istituzione ma della cristianità intesa come esperienza viva di Chiesa nel mondo.
Mi trovo spesso a pensare ai 37 anni contrassegnati dal grande Magistero, della grande testimonianza di Giovanni Paolo II, da questo straordinario riposizionamento della Chiesa di fronte al cuore dell’uomo, che ha riaperto il dialogo tra Cristo e il cuore dell’uomo. A questi 37 anni di un Magistero straordinario e di una capacità di dialogo con gli uomini ben prima e ben oltre visioni ideologiche e religiose; e agli anni non meno intensi e suggestivi, appassionati, di Benedetto XVI, nel suo infaticabile riproporre il cristianesimo come evento di compimento della ragione, dell’umanità; con quell’implacabile, dolcissimo insegnamento sul recupero della ragione, intesa in senso largo, compiuto, come apertura al mistero e non come affermazione delle propria capacità di organizzare scientificamente le conoscenze.
Ebbene, dopo tutto questo è come se la cristianità italiana sia quasi inebetita. Inebetita.
Così ora si profilano due sconfitte lancinanti per questa cristianità, a cui non avrei mai pensato di dover assistere, e che riempiono la mia vita di vergogna, perché è per affermare la verità della Chiesa e della sua missione contro queste tentazioni, che ho dedicato la mia vita di cristiano, di prete, adesso di vescovo, di ricercatore.
La prima sconfitta è incredibile ma si è ormai compiuta. Dopo che con Giovanni Paolo II, in perfetta linea con la tradizione magisteriale della Chiesa, si era affermata la fede come condizione di una autentica conoscenza della realtà, della storia e della società; dopo che si era compreso che la fede diventa cultura, per cui - come ha detto tantissime volte – “se la fede non diviene cultura non è stata realmente accolta, pienamente vissuta, umanamente ripensata”; dopo tutto questo sta ridiventando maggioranza quel dualismo fede e cultura per cui la cultura rappresenta una realtà autonoma dalla fede. Così che con la cultura nella migliore delle ipotesi si può accennare a qualche momento di “dialogo” o di “cortile”, espressioni che una adeguata razionalità e una adeguata consapevolezza di fede fanno fatica a definire nella loro obiettività.
Allora la fede si aggiunge alla cultura, ne rappresenta una introduzione di carattere spirituale, ne corregge o ne correggerebbe le conseguenze negative sul piano etico, aspetto questo assolutamente evidente quando si parla del rapporto fede-economia o fede-politica.
Che fine ha fatto la grande e spettacolare enciclica Caritas in Veritate, che invece affermava la pertinenza della fede nei confronti delle stesse strutture, delle stesse dinamiche economiche? Ogni tanto la si vede citare, ma giusto il titolo. Anche i cosiddetti economisti cristiani hanno ripiegato su questa posizione, sono tornati velocemente a quella eticità dell’economia, che nell’apparente semplicità dice tutto perché non dice niente. L’economista cristiano e poi il politico cristiano in questa visione dovrebbero così temperare i rigori del capitalismo selvaggio.
La fede invece forma la realtà; “la fede abilita noi credenti a interpretare, meglio di qualsiasi altro, le istanze più profonde dell’essere umano e ad indicarne con serena e tranquilla sicurezza le vie e i mezzi di un pieno appagamento”, diceva Giovanni Paolo II l’8 dicembre 1978 a docenti e studenti dell’Università Cattolica, tra cui c’ero anch’io, e lo posso dire con un orgoglio che non si è mai andato stemperando. E ho percepito la straordinaria novità di quell’incontro, troppo velocemente archiviato anche nell’ambito dell’Università Cattolica cui pure era stato riferito in maniera privilegiata e preferenziale.
Non meno penosa dell’insorgere del dualismo fede-cultura, è l’altra grande sconfitta: l’insignificanza della presenza cattolica nell’agone sociale e politico. Oggi il voto dei cattolici è assolutamente insignificante nel panorama della vita italiana, come ebbe a dire giustamente il mio amico Alfredo Mantovano in un suo lucido intervento qualche mese fa.
Chi sono i cattolici che militano nella varietà di espressioni socio-politiche che esistono? Gente che personalmente la domenica mattina andrà a messa, ci si augura; che è a posto dal punto di vista di una certa devozione alla vita morale, a meno che non si tratti di vita matrimoniale perché lì allora si aprono centinaia e centinaia di eccezioni, più o meno clamorose o più o meno nascoste ma assolutamente maggioritarie anche tra i cattolici in politica. Gente che personalmente e individualmente può avere anche una certa pratica di pietà.
Ma ciò che caratterizza l’intervento di chi appartiene alla fede, la forma dell’intervento è la Dottrina Sociale della Chiesa. E il cuore della Dottrina Sociale della Chiesa sono i princìpi non negoziabili. Questi dettano le analisi di carattere socio-politico, e questi indicano anche le linee di un’azione che almeno dal punto di vista della cultura dovrebbero avere una certa unità. Dovrebbe esserci una certa unità dei cattolici in politica che poi può preludere a differenze dettate da valutazioni particolari e speriamo non soltanto da interessi particolari.
Le ultime elezioni invece sono state la sagra dell’individualismo e dell’opinionalismo. I cattolici hanno votato per tutti e a vantaggio di tutti, senza chiedersi se questo loro voto avrebbe poi significato eleggere delle presenze che avrebbero tutelato non gli interessi della Chiesa, ma gli interessi della ragione e della fede, cioè dell’umanità.
Tutto era avviato, la Provvidenza aveva avviato tutto perché ci fosse un risorgere della presenza cristiana, come presenza di popolo, come presenza culturale, sociale, politica. Che ne è ora della grande sfida della nuova evangelizzazione che abbiamo raccolto dal primo insegnamento di Giovanni Paolo II?
Tornano i dualismi che si collegano ad alcuni nomi nefasti per la cristianità italiana, passati o presenti, che il pudore e la carità di patria mi impedisce di citare.
Forse i magisteri paralleli stanno compiendo l’ultima e non meno grave delle loro vittorie. Ma la vittoria dell’individualismo culturale e della frammentazione della presenza politica dei cattolici, senza la custodia e la promozione dei princìpi non negoziabili, non è soltanto la sconfitta dei cristiani, come diceva Marcello Pera nella prefazione al mio volumetto “Per un umanesimo del Terzo Millennio”: “Qui se si perde, si perde tutti; se si vince si vince tutti”.
Per adesso, salvo che la Provvidenza riscompigli le carte, possiamo veramente dire che stiamo perdendo tutti.
* Arcivescovo di Ferrara e Comacchio,
- A monsignor Negri il premio Cultura Cattolica.
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